2005. Esce “Silent Alarm”, esordio dei semisconosciuti (all’epoca) Bloc Party. Un disco folgorante, che fa incetta di recensioni entusiastiche, ottime vendite, canzoni (che poi, alla fine, son quelle che fanno la differenza, no?) caratterizzate da ritmi vertiginosi che rimandano al Rock primi anni 80 condito in salsa moderna, in certi momenti vagamente ballabile, in altri puramente epico.
A distanza di due anni (e dopo un singolo fortunato come “Two More Years”) ecco il quartetto inglese al varco della seconda prova, oggi come non mai un importante spartiacque: in tempi di musica “mordi e fuggi”, di Ipod e Itunes, Mp3, Playlist che non finiscono più, molti gruppi sembrano perdersi nell’attimo della conferma, schiacciati da aspettative forse troppo grandi, schiacciati, in un certo senso, dal peso del loro stesso successo. Questa difficoltà, questo procedere incerti tra la sicurezza di un primo lavoro acclamato da critica e pubblico e la volontà di cambiare, di dimostrare di essere maturati, ha colpito, chi più chi meno, molti esponenti dell’ultim’ora: penso ai Keane piuttosto che ai Franz Ferdinand o agli stessi Killers…
E i Bloc Party…? – vi starete chiedendo -…
Beh, la risposta non è così chiara, almeno non in apparenza. C’è stato un cambio di produttore (Jacknife Lee, l’uomo dietro la “City of Blinding Lights” degli u2, è subentrato a Paul Epworth), c’è stato un lunghissimo ed estenuante tour mondiale, e c’è stato (non ne dubito) il guardarsi intorno e dentro sé, con l’immagine di quel "Silent Alarm" proiettata sullo specchio della propria camera d’albergo.
“A Weekend in The City” rispecchia tutto questo: atmosfere cupe, poco gioiose, il ritratto delle paure e delle ansie della società moderna, della vita in città, il tutto filtrato attraverso gli occhi e i sentimenti della Band. L’inconsapevolezza del primo disco, i testi che affrontavano storie di quartiere, del quotidiano, di amici, adesso lasciano spazio a riflessioni sulla vita, sui ricordi, la nostalgia, sulla morte, sulla solitudine. Anche la produzione è più stratificata e complessa, le soluzione sonore sono ricercate, la parte ritmica, contenuta rispetto alla forza travolgente del debut album, si mette al servizio della struttura complessiva della canzone. L’elettronica si affaccia prepotente sulla scena e sposta il tiro del Rock puro degli esordi: nel complesso, risulta un prodotto finale meno diretto e immediato del suo predecessore.
Sarò sincero, inizialmente “A Weekend in The City” mi aveva deluso: “Eccoci” - ho pensato - “Ci risiamo…un solo disco e poi tanti saluti…”.
Ma l’abito, come si sa, non fa il monaco…così, eccomi qui, a due mesi dall’uscita, a rispondere finalmente alla domanda di sopra (“E i Bloc Party…?...”): senza tanti giri di parole, questo, signori, è una gran disco, infrange cuori fuoriuscendo alla distanza. 11 Tracce di altissimo livello, un ritorno in grande stile, più difficile e forse, anche per questo, più bello. I Fan della prima ora (io stesso) spiazzati dall' apparente cambio di rotta, riusciranno, ascolto dopo ascolto, a percepire il cuore pulsante di questo lavoro, un cuore che balla, che trascina, ma che sa anche riflettere e, alle volte, piangere.
I Bloc Party sono andati avanti senza rinnegare se stessi, innovato senza necessariamente stravolgere. Un momento di transizione, una doppia anima ben evidenziata anche dalla stessa disposizione dei pezzi: una prima parte che strizza l'occhio al passato recente, lascia spazio a nuovi, irrequieti, orizzonti.
Si inizia col piede sull’acceleratore ricordando i momenti migliori di “Silent Alarm” (“Song for Clay”, “Waiting for the 7.18”, “Hunting for witches” ritmo ballabile, lirica sugli attentati di Londra 2005) e poi pian, piano si rallenta lasciando spazio alla sperimentazione (il primo singolo “The Prayer”, la bellissima “On”) per arrivare al quartetto di coda, che strappa applausi a scena aperta. C’è la ballata malinconica “Kreuzberg”, c’è la piccola perla quasi Pop “I Still Remember”, ricordo nostalgico di quanto è stato (“I could see our days are becoming night, I could feel your heart beat across the grass, we should have run, I would go with you anywhere, I should have kissed you by the water”) a cui segue “Sunday”, sorretta da un arpeggio languido e una batteria che sembra presa in prestito da “Speed of Sound” dei Coldplay. Chiude, e non potrebbe farlo in modo migliore, la plumbea “Srxt”, quanto di più lontano dai Bloc Party “prima maniera”: lenta in apertura ed epilogo (Carillon e campanellini), travolgente nel rabbioso e lancinante muro di suono centrale, un po’ Mogwai, un po’ Sigur Ròs.
Cala il sipario, termina il viaggio. Un viaggio ricco di emozioni, per un ritorno che non tradisce le aspettative.
A distanza di due anni (e dopo un singolo fortunato come “Two More Years”) ecco il quartetto inglese al varco della seconda prova, oggi come non mai un importante spartiacque: in tempi di musica “mordi e fuggi”, di Ipod e Itunes, Mp3, Playlist che non finiscono più, molti gruppi sembrano perdersi nell’attimo della conferma, schiacciati da aspettative forse troppo grandi, schiacciati, in un certo senso, dal peso del loro stesso successo. Questa difficoltà, questo procedere incerti tra la sicurezza di un primo lavoro acclamato da critica e pubblico e la volontà di cambiare, di dimostrare di essere maturati, ha colpito, chi più chi meno, molti esponenti dell’ultim’ora: penso ai Keane piuttosto che ai Franz Ferdinand o agli stessi Killers…
E i Bloc Party…? – vi starete chiedendo -…
Beh, la risposta non è così chiara, almeno non in apparenza. C’è stato un cambio di produttore (Jacknife Lee, l’uomo dietro la “City of Blinding Lights” degli u2, è subentrato a Paul Epworth), c’è stato un lunghissimo ed estenuante tour mondiale, e c’è stato (non ne dubito) il guardarsi intorno e dentro sé, con l’immagine di quel "Silent Alarm" proiettata sullo specchio della propria camera d’albergo.
“A Weekend in The City” rispecchia tutto questo: atmosfere cupe, poco gioiose, il ritratto delle paure e delle ansie della società moderna, della vita in città, il tutto filtrato attraverso gli occhi e i sentimenti della Band. L’inconsapevolezza del primo disco, i testi che affrontavano storie di quartiere, del quotidiano, di amici, adesso lasciano spazio a riflessioni sulla vita, sui ricordi, la nostalgia, sulla morte, sulla solitudine. Anche la produzione è più stratificata e complessa, le soluzione sonore sono ricercate, la parte ritmica, contenuta rispetto alla forza travolgente del debut album, si mette al servizio della struttura complessiva della canzone. L’elettronica si affaccia prepotente sulla scena e sposta il tiro del Rock puro degli esordi: nel complesso, risulta un prodotto finale meno diretto e immediato del suo predecessore.
Sarò sincero, inizialmente “A Weekend in The City” mi aveva deluso: “Eccoci” - ho pensato - “Ci risiamo…un solo disco e poi tanti saluti…”.
Ma l’abito, come si sa, non fa il monaco…così, eccomi qui, a due mesi dall’uscita, a rispondere finalmente alla domanda di sopra (“E i Bloc Party…?...”): senza tanti giri di parole, questo, signori, è una gran disco, infrange cuori fuoriuscendo alla distanza. 11 Tracce di altissimo livello, un ritorno in grande stile, più difficile e forse, anche per questo, più bello. I Fan della prima ora (io stesso) spiazzati dall' apparente cambio di rotta, riusciranno, ascolto dopo ascolto, a percepire il cuore pulsante di questo lavoro, un cuore che balla, che trascina, ma che sa anche riflettere e, alle volte, piangere.
I Bloc Party sono andati avanti senza rinnegare se stessi, innovato senza necessariamente stravolgere. Un momento di transizione, una doppia anima ben evidenziata anche dalla stessa disposizione dei pezzi: una prima parte che strizza l'occhio al passato recente, lascia spazio a nuovi, irrequieti, orizzonti.
Si inizia col piede sull’acceleratore ricordando i momenti migliori di “Silent Alarm” (“Song for Clay”, “Waiting for the 7.18”, “Hunting for witches” ritmo ballabile, lirica sugli attentati di Londra 2005) e poi pian, piano si rallenta lasciando spazio alla sperimentazione (il primo singolo “The Prayer”, la bellissima “On”) per arrivare al quartetto di coda, che strappa applausi a scena aperta. C’è la ballata malinconica “Kreuzberg”, c’è la piccola perla quasi Pop “I Still Remember”, ricordo nostalgico di quanto è stato (“I could see our days are becoming night, I could feel your heart beat across the grass, we should have run, I would go with you anywhere, I should have kissed you by the water”) a cui segue “Sunday”, sorretta da un arpeggio languido e una batteria che sembra presa in prestito da “Speed of Sound” dei Coldplay. Chiude, e non potrebbe farlo in modo migliore, la plumbea “Srxt”, quanto di più lontano dai Bloc Party “prima maniera”: lenta in apertura ed epilogo (Carillon e campanellini), travolgente nel rabbioso e lancinante muro di suono centrale, un po’ Mogwai, un po’ Sigur Ròs.
Cala il sipario, termina il viaggio. Un viaggio ricco di emozioni, per un ritorno che non tradisce le aspettative.
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