venerdì 16 novembre 2007

Lurgee

I feel better,
I feel better now you've gone

I got better,
I got better, I got strong

I feel better,
I feel better, now there's nothing wrong

I got better,
I got better, I got strong

Tell me something,
Tell me something I don't know

Tell me one thing,
Tell me one thing, let it go

I got something,
I got something heaven knows

I got something,
I got something I don't know


Radiohead. Anno 1993. Pablo Honey, l'album, il disco di debutto. A oltre 10 anni di distanza, è difficile oggi giudicare quel lavoro, figlio del tempo, del Brit-PoP, dei primi anni 90, di una band ancora alla ricerca di un propria identità e che avrebbe, in seguito, stupito il mondo intero con canzoni e album straordinari. Nonostante quindi la convivenza di Pablo con i suoi "fratelli maggiori" (da "The Bends" in poi) non sarebbe stata facile, è innegabile come questo lavoro abbia un fascino tutto suo, a cavallo tra la freschezza di una band che aveva ancora tutto da dire e la voglia di raccontare, comunicare, con solo 4 strumenti e una voce, senza pressioni, senza computer, sovraincisioni, mixaggi arditi.
Per molti parlare di Pablo Honey significa parlare di "Creep", una delle canzoni più famose della band, la loro prima vera Hit, la canzone "Live" per eccellenza per molto tempo. Oggi, tuttavia, parleremo di altro. Oggi, voglio raccontare la mia canzone di quel disco.
Lurgee.
Letteralmente il temine (britannico) fa riferimento ad un stato di malessere non ben definito, non necessariamente qualcosa di serio, ma che potrebbe essere contagioso. Associata all'aver bevuto acqua contaminata nel secondo conflitto mondiale, la parola divenne di uso comune negli anni 50' attraverso uno show radiofonico della BBc: "Lurgee" era una strana malattia scoperta da due dottori, entrambi proprietari di negozi musicali, che poteva essere curata solo suonando in una band (?!?).
Track numero 11 (la penultima), musicalmente affascinante, la canzone deve molto (opinione personale) ad un certo tipo di sound u2ico, soprattutto nello spezzone finale dove una chitarra vagamente Edg(iana) attira l'attenzione, in un vortice di echi e voci sussurrate. Il testo (che ho sopra riportato) come vedete è molto semplice, ma non per questo scontato o banale o meno incisivo. Quel "I Fell Better" più volte ripetuto sembra connotare un stato positivo e di miglioramento. Tuttavia qualcosa non quadra, anche senza capire le parole, tra una melodia apparentemente felice e un incedere del cantato non certo solare. Così, nella seconda seconda parte, "Better" diventa "Don't Know" e si realizza che le prime parole, "I Got Strong", "There's Nothing Wrong" sono quelle classiche parole di incoraggiamento che ci ripetiamo per auto-Convincerci che tutto stia andando bene, che non c'è niente che non vada, quando in realtà niente sta andando nel verso giusto. "Tell me something...Tell me one thing": l'idea, a questo punto, è quella di una storia (importante) che è terminata. Si cerca di andare avanti, si cerca di trovar(n)e i lati positivi, il fatto di essere migliorati, di essere in un certo senso più ricchi di prima. Ma la verità è che c'è una gran vuoto dentro noi. E allora, guardando indietro, la richiesta di un segnale, un contatto, anche solo una semplice parola, per capire che sì, alla fine, ne è valsa la pena o che forse c'è ancora una speranza. Che quel qualcosa c'è davvero stato, non l'abbiamo solo sognato, e che, ancora adesso, sopravvive, seppur in forma diversa. In quest'ottica (che è più meno la stessa interpretazione data da Tom Yorke, il cantante della band, in un Live del 1996) la canzone diventa struggente: l'ultimo minuto, del tutto strumentale, attraverso un gioco di echi e voci che si rincorrono, sembra rappresentare in musica, le voci, le sensazioni, i momenti, un passato così lontano, così vicino. E' difficile da descrivere a parole (che è un bene) quello stato d'animo. Ma quel minuto finale "E'" quello stato d'animo. E' come vedere qualcosa ad occhi chiusi. Sentirlo, oltre. E seppur tagliente e triste da portare alle lacrime, è anche e paradossalmente gioia, una liberazione, un respirare a pieni polmoni. Semplicemente nè bianco, nè nero: scala di grigi.

domenica 4 novembre 2007

Ratatouille

Ratatouille....? Beh, voto 8. E, diciamocelo, i miei pensieri a riguardo terminano più o meno qui. Circa una settimana pensando a cosa scriverne, un voto, poi il vuoto. Cosa raccontare dunque dell'ultima fatica Pixar ? Che fondamentalmente segna (ancora una volta) un deciso balzo in avanti per quanto riguarda l'animazione digitale (ormai su livelli strepitosi) ? Che, come ogni grande film che si rispetti (per favore, non parliamo di "Cartone Animato"), offre molteplici livelli di Lettura ? Oppure che, semplicemente, è il miglior Film Pixar prodotto fino ad oggi ?

Certo, tutto questo. Questo ed altro. Molto altro. Ma trovo alquanto riduttivo (almeno in questo caso) affrontare tutta la trafila di raccontarvi la trama, spendendo aggettivi iperbolici, paragoni, citazioni, applausi e sorrisi gustosi. Quindi vi (mi) risparmio il sermone (bla, bla, bla...) e passo direttamente alla sola, vera, unica portata che meriti attenzione. Una scena, una sola (non vi dirò qual'è), l'anello di congiunzione tra milioni di poligoni e qualcosa che va oltre, che travalica l'essere semplice "cartone", che segna uno scarto (netto) tra ciò che è stato fino adesso e ciò che potrebbe non essere più lo stesso. Un momento registicamente atteso (la macchina si muove e intuiamo già cosa accadrà) ma che nella sua semplicità, lascia a bocca aperta (perché nessuno vi hai mai pensato prima ?). Infinita letizia della mente candida. Tornare bambini, che non vuol dire tornare stupidi o forzatamente ingenui, ma gioire completamente di un attimo perduto, abbracciando se stessi, come quel giorno di natale, scartando i regali, nessun dubbio, nessun pensiero. Pixel che respirano, sognano, amano e si cullano in un ricordo a lungo dimenticato. Il film, per chi scrive, è tutto in quei 30 secondi, l'attimo più alto, dove i 110 minuti di proiezione iniziano e terminano allo stesso tempo.

Ratatouille, ovvero innamorarsi del cinema, un'altra volta.